Civiltà invisibili

Annachiara Marangoni

Ma davvero esiste quella cosa che divide la comprensione dall’arte? Che non lascia dubbi sulla interpretazione sistematica di un’opera comprensiva dei suoi linguaggi, dei suoi simboli, del suo discorso?
Io dubito fortemente sul tentativo di forzare con l’interpretazione ciò che attraverso l’arte, l’artista significa. Ossia veste di significato ogni tratto del suo movimento, seguendo il ragionamento dettato dal di dentro (Ҫa parle, direbbe Lacan), che neppure lui conosce veramente e che lo lascia ogni volta stupito.
Voglio partire allora proprio da questo stupore atteso, aspettato dall’artista ogniqualvolta egli stesso mira la sua opera che gli stravolge i sensi e l’ordinamento del suo inquadramento cognitivo, perché arriva dentro, fino dove nessuno lo sa.
Lotto con lo sfondo per vedere apparire dinnanzi qualcosa che mi racconta un motivo, che riconosco come vero diacronico. Scorgo mille parole in quel dipinto, un racconto vero, che io stessa fatico ad afferrare, forse perché appartiene a lui, a chi ha parlato. Ma chi ha parlato davvero si è rivolto a me? O invece parla a se stesso, ed io rimango nascosta dietro ad una tendina trasparente, con i sensi tesi a raccogliere i resti di una frase mozzata, di un verso traverso, di un lembo di tela colpito da una coltre bianca di colore.
La protome taurina si dipana regnando come fa il sole sulla terra, regalando la forza del calore alla natura che fiorisce in un caleidoscopio di colori bollenti sospesi sul mare confuso col cielo azzurro, come fa un nastro alla finestra. Le forme sono schemi, tavole della legge piene di un senso ignoto, ma fedelmente riprodotto nel girotondo misterioso dell’artista.
Entra in gioco ora il discorso di noi, tra questa parola tangibile e dura e le mie metafore, le mie impressioni primitive e distorte. Non riesco, a dire il vero, a mettermi tra me e il dipinto come fa il muro con il film e lo spettatore. Provo a metterci un piede dentro un attimo. Ed è subito analisi. Analisi di tutto. Del colore, del segno brusco e dolce. Mi tuffo dentro al segno e navigo nell’infinto, senza una bussola, andirivieni di linee, onde, storte e oblique. Angoli secchi e angoli umidi. Anche onde sonore ad un certo punto.
Scontro tra simboli, ma in fondo rivelare attraverso la parola è tutto quello che il simbolo detesta. Questa mostra non è una necessità di parola, un’urgenza di descrizione analitica. E’ una lotta ruvida e incornata, incoronata direi, senza mezze corna. O ti scontri o descrivi. Nessuna noia. Il tuffo è di rigore, dentro tutti nella navigazione che non esita alcun naufrago se non chi vuole veramente naufragare. Lotta e terremoto di un discorso avanzato, diretto, che spesso porta dentro, ma desidera rimanere sospeso in un romantico fior d’acqua, una carezza, un delicato sguardo da vere iridi azzurre.
Corna e braccia, e lune che dondolano, e leggere oscillazioni, retrocessioni, scudi, segni, omini poveri in castelli miliardari. Un universo di diagrammi con e senza flusso. Un flusso di paragoni e metafore. Un’alchimia di paradisi preistorici avanzati. Da una parte il severo viola, con la sua magnificenza, dall’altro il bianco con la sua candida sicurezza. Discorsi tra trame e dame, gli arancioni che diventano rose, e le rose che diventano draghi.
Insomma un’apocalisse, per chi conosce la bibbia e le sue croci variegate alla nocciola. Stele piantate su costole senza Adamo e senza Eva, un divenire che è già passato. Ma in fondo in fondo, questo in essere è davvero già stato attraversato oppure è un incantesimo senza formula magica?
No no. Questo presente è ciò che vediamo con gli occhi dell’emozione e dell’incanto, ciò che ascoltiamo con l’emozione di un battito che cresce tra le note che si scatenano nella perfezione. È questo che vediamo qui rappresentato e il suo discorso aperto al nostro immaginario, pieno di semplice complessità. Sta a noi scegliere la logica con la quale seguire il discorso dell’artista che si è inabissato in un solo tema, questa volta. Il tema pericoloso e tremante del discorso primitivo. Che rischio questo. Che avventura dissuadente per chi anela con bramosia l’adulazione. Invece è un rischio assumibile, un’avventura nella conoscenza di se stessi attraverso la ricerca.
Rimaniamo sulle tele, su questo corso accelerato di storia sarda, viaggiando sul treno diacronico del tempo, che parte circa 2500 anni prima di Cristo, in Egitto, un tempo coronato e magico.
E’ quello che io vedo, lo scottante tema taurino che diventa la chiave della vasta opera di Antonello Serra, il sacro dissacrato, messo sul piano di altri simboli minori. La centralità del toro vacilla, è scostante nel discorso della mostra, ma persistente. Sulla via del simbolo l’anteprima mostra tutto. La figura umana stilizzata, deprivata di identità di genere vale tanto quanto il tema dei segni. La forca quanto l’elemento digitale. Poca separazione, terra e cielo si mescolano nel colore tematico o policromo.
Interessante in alcuni quadri, la ricostruzione di figure paesaggistiche, territori lunari o forme abituali che straripano di elementi simbolici. Una narrazione artistica estremamente complessa, la cui semantica ultima resta quella dei resti. Resti antichi, lucidati e rianimati, profilati dalle tele e resi energetici talvolta esplosivi.
Nel colore e nel perimetro del quadro ritrovo il mio contenitore, ne ho bisogno per capire. Che difetto il mio. Dopo il primo impatto emozionale il cervello scava come una trivella per cercare il senso, la logica dell’insieme. Su questo tasto sono molto poco contemporanea, ancora mi nutro del senso per appagare una necessità di ordine che mi tranquillizza.
Colore e spazio quindi, gli elementi unificatori. Ma anche la ridondanza ossessiva dei simboli ordinati in tavole, tavole e ordine, un alfabeto che solo l’autore conosce, che si riconnette all’alfabeto di quell’uomo che allora tracciò gli stessi segni sulla parete della Tomba del Capo, dentro al Santu Lesèi mentre scolpiva lo strano bronzetto nuragico che rappresenta un toro androcefalo. Come si dice un mostro antropomorfo, metà toro e metà uomo, quasi un centauro in versione sarda. O forse il Boe Muliache, un uomo divenuto toro, mitico personaggio del folclore sardo. Chissà.
Particolari esemplari nei quali trascorre una sola esistenza. Un solo verde rapirebbe anche una squadra di security in piena attività. Un oceano di emozione e pesca a strascico. Scomode dita che trafiggono il fondale si prendono ciò che è anche loro, da sempre.
Antonello Serra gioca come può farlo un bimbo davanti al mondo. Una scoperta è poco, mille occhi e mani sono ancora poco. La serie di quadri emana questa potenza pulsionale, di desiderio verso l’ignoto nascosto dal tempo. Che si trasforma in pura rappresentazione in bilico tra il tridimensionale e la realtà. Molto studio del soggetto antico simbolico, consapevole mappatura della storia di una Sardegna arcaica celata nelle domus de janas.

Nelle raffigurazioni remote scorgiamo l’agito come regola di elaborazione del sistema artistico e religioso più remoto della Sardegna,  per cui l’espressione animalesca si riduce a un miogramma. Ed è ciò che più ci assale ammirando le opere di Serra, l’abbraccio tra presente e antico, nella figura dell’artista che interpone se stesso allo scandalo della realtà critica, denudandosi davanti alla storia e lasciando al colore e al segno l’ultima “parola”.